Parla Rahaf Harfoush, che era nel social media team di Obama nella campagna elettorale del 2008: «Non bisogna aver paura di fare domande. Quante persone leggono davvero i termini di servizio di Facebook, Apple e altri?»

Oggi che tutto è misurabile e misurato, oggi che i Big Data sono diventati una parola d’ordine sia per esperti di marketing che per gli ingegneri, è difficile trovare persone che possano aiutare a districarsi fra pregi e difetti dell’approccio alla quantificazione che ormai sta prendendo piede in tutti i campi, dalla politica al commercio. Una di queste è l’arabo-canadese Rahaf Harfoush, che di lavoro fa “antropologa digitale”, qualifica già di per sé abbastanza insolita e che, sebbene poco più di trentenne, può vantare esperienze e collaborazioni di tutto rispetto. Ex membro del social media team di Obama nella prima storica campagna elettorale, quella del 2008, che sdoganò i social media come strumento per creare partecipazione e consenso, si è poi dedicata ai temi dell’innovazione come co-direttore del programma Technology Pioneers del Forum Economico Mondiale, e più recente all’analisi dei Big Data come strumento per aumentare la produttività di aziende e organizzazioni.
Oggi si parla molto del cosiddetto “quantified workplace”, il posto di lavoro in cui, per mezzo di sensori e algoritmi ogni aspetto del lavoro di un impiegato viene costantemente vagliato e monitorato. Vede questa come un’evoluzione positiva, o c’è da preoccuparsi?
Non credo che il problema siano i dati, il problema sono gli essere umani, che fanno errori. Certamente non ci si può affidare solo ai dati, ma anche all’esperienza e all’intuito: i dati possono fungere da guida, indicare degli schemi, dei pattern che magari a prima vista non sono visibili.
Nel 2008 la mobilitazione via Internet creata dal team di Obama fu la sorpresa. Oggi ormai anche gli altri partiti e gli altri candidati si sono adeguati ai tempi. Pensa che nel 2016 i social media potranno ancora fare la differenza?
Il 2008 è stato l’anno dei social media, nel 2012 il focus era invece sulla micro-segmentazione e l’utilizzo dei dati per analizzare il comportamento dei votanti, il 2016 sarà tutto incentrato sul creare un contesto. In altre parole, sullo storytelling. Ci sono già così tante informazioni che quello che conta, ora, è dare alle persone una narrazione che abbia un senso. Ormai tutti i candidati sono su Twitter e Facebook, tutti fanno raccolta fondi online, ci vuole qualcosa di diverso. Su YouTube stanno spuntano i “riassunti” dei dibattiti politici, che forniscono alla gente i contenuti fondamentali, quello che gli serve sapere, in pillole di piccolo formato.
In politica, dov’è il confine fra rendere le persone più consapevoli della tua causa, e manipolarle, usando il data mining?
Una delle cose di cui parlo nel mio ultimo libro, The decoded company, sono le “pratiche etiche nell’utilizzo dei dati”. Solo perché abbiamo così tante informazioni a disposizione, non significa che ne possiamo fare quello che vogliamo. Una delle cose più importanti è la trasparenza, far sapere alle persone quello che si sta raccogliendo, come lo usi e perché. Nel 2008, nella campagna di Obama eravamo molto chiari su questo. Dato che come votante sapevo che dando il mio indirizzo email potevano entrare in contatto con me, e che dando le mie preferenze e interessi, potevano coinvolgermi in progetti che fossero in linea con esse. Quello che è preoccupante è quando invece partiti e aziende non sono trasparenti su quanto raccolgono, ed è allora che come consumatore e votante mi preoccupo.
Si può fare qualcosa?
Non bisogna aver paura di fare domande. Quante persone leggono davvero i termini di servizio di Facebook, Apple e altri? La risorsa è auto-educarsi, informarsi. Una volta che si è consapevoli si può modificare il proprio comportamento in maniera appropriata: battersi per far passare certi provvedimenti, usare o non usare certe applicazioni. Io per esempio, non uso mai Facebook Messenger. E anche Facebook lo uso poco. Ma la colpa non è della tecnologia, la tecnologia non è né buona né cattiva. Serve maggiore acculturazione.
Pensa che si stia diffondendo maggiore consapevolezza? Il modo di usare i social media sta cambiando?
Difficile dirlo, quello che vediamo è l’emergere di molte comunità pro-privacy, come Ello, che fanno percepire quanto il problema sia sentito. Ci sono persone che stanno iniziando a capire quanto siano potenti i sistemi di riconoscimento facciale delle foto che mettiamo su Facebook, e si proteggono con particolari forme di make-up, occhiali e cappucci. Ci sono anche delle cose chiamate “data scramblers” che riempiono i campi dei social network relativi al profilo – cose come data di nascita, indirizzo, età – con informazioni false in modo da confondere le tracce. Ma è molto difficile fare previsioni a lungo termine, in un settore che cambia così velocemente.
Come vede gli sforzi di regolamentare Internet, per esempio le recenti decisioni del Parlamento europeo che riguardano la neutralità della Rete?
Penso che uno dei problemi di queste iniziative sia il fatto che i politici che si trovano a legiferare questi temi, spesso sono persone che non sono nate con queste tecnologie, e che magari neppure le usano. Per cui secondo me i governi dovrebbero creare degli organismi di consulenza composti da giovani, che potrebbero dare indicazioni utili. Altrimenti (ride), è come se chiedessi a mio nonno di sistemarmi la rete di casa – oddio, questa forse non la dovevo dire. Vabbe’, ormai l’ho detta